
1. The Temple Of The Crescent Moon
2. Equinox Of The Gods
3. Until The Hellhounds Sleep Again
4. Will They Come?
5. Lucienne
6. Summertime Is Gone
7. Katarraktis Apo Aima
8. Raining Dead Angels
9. Misantropolis
10. Amanitis
11. Meliae
12. Via Dolorosa
13. Circles
14. Amanes
Cinque anni sono passati da Prey. Cinque anni di attesa per il suo successore, mentre mr. Edlund scopriva la sua anima latina e si crogiolava al sole della Grecia. Ma finalmente ecco il nuovo lavoro dei Tiamat, Amanethes. Ovviamente, dopo un lustro passato ad aspettare questo disco, NON sarò breve

Alcuni rilievi di massima:
- questo album è estremamente disorganico. Come e più di Judas Christ, pare semplicemente privo di un qualunque filo conduttore, tanto da costringermi ad una modalità di recensione che mai mi è andata particolarmente a genio: il track by track;
- nella sua già ricordata disorganicità, Amanethes pare avere l’ambizione di costituire una summa e ricapitolazione del Tiamatpensiero dagli esordi o quasi sino ad oggi. Sembra che i nostri eroi, dopo la lunga assenza dalle scene, abbiano voluto ricordare e ricordarsi da dove vengono e quali strade abbiano percorso nel loro cammino. Il logico risultato è un album molto vario, quasi una sorta di collage musicale;
- i brani contenuti in Amanethes celano una notevole ricchezza di (per citare i Gorguts) “elusive treasures”. Dietro riffs e composizioni di apparente semplicità, arrangiamenti raffinati danno vita ad armonie sfuggenti, particolari nascosti, che saturano le canzoni rendendole estremamente “dense”. L’ascolto si svolge quindi quasi su due livelli distinti: un primo più superficiale, un secondo più profondo, teso a scoprire via via i segreti che rendono questo album tanto intenso;
- la voce di Edlund domina il disco da signora e padrona. Coerentemente con la varietà dei brani, il cantato svaria attraverso molteplici timbri e registri, a tratti abbandonando il consueto tono ipnotico per inasprirsi, adeguandosi a ruvidezze inedite per gli ultimi Tiamat. Ne risulta una prestazione vocale straordinaria.
The temple of the crescent moon: l’album si apre con la classica “canzone – puttana”, un pezzo brillante ed ultraorecchiabile fatto apposta per stamparsi in testa al primo ascolto. Musica e testo rappresentano una sorta di captatio benevolentiae nei confronti dell’ascoltatore, della serie “quanto è bello ritrovarsi tutti assieme allegramente dopo cinque anni”. Una canzoncina, insomma; ma troppo carina per non volerle bene. E che piacere risentire una bella doppia cassa piena in un pezzo dei Tiamat!
Equinox of the gods: questa è uno shock. L’ultima cosa che si aspetta l’ascoltatore che ha seguito fedelmente gli ultimi Tiamat è di essere salutato da un growl, una serie di accordi pesanti e una sventagliata di blastbeat sparata a bruciapelo. Poi la canzone rientra in regimi più moderati, ma conserva comunque un tiro sorprendente: le chitarre ci vanno giù dure, Edlund vomita blasfemie con voce malevola, e su tutto grandina doppia cassa. Probabilmente i Tiamat non scrivevano qualcosa di così pesante da… Sumerian Cry pt. III? O da mai? Gran pezzo.
Until the hellhounds sleep again: uno dei brani più riusciti del disco. La voce di Edlund si snoda profonda su graffi di chitarra come un serpente su un letto di chiodi, per poi farsi piena in un ritornello potente ed oscuro, perfettamente adatto ad una canzone che tratta l’ormai ricorrente tema della tentazione. Bello il finale, in cui il ritornello viene straziato da una chitarra stridula mentre la batteria si scompone. And in the night Satan is divine.
Will they come: ballata abbastanza canonica ma dal refrain molto suggestivo, dove comunque non si rinuncia a chitarre graffianti.
Lucienne: sembra una parodia di Until the hellhounds… La profonda voce di Edlund viaggia a tempo di marcia, sardonica e quasi irridente, per poi scatenarsi aspra nel grintoso ritornello. Gustosa la improvvisa accelerazione nella parte centrale.
Summertime is gone: brano pervaso di nostalgia, vagamente retrò, molto ben arrangiato e caratterizzato da un delicato, pregevolissimo lavoro di tastiere. Si immette senza soluzione di continuità in
Katarraktis apo aima: una sorta di interludio che recupera il tema principale della precedente distorcendolo e sfigurandolo in un’ossessiva riproposizione, mentre la voce “marcisce” progressivamente. Bello.
Raining dead angels: pezzo cattivo con moderazione, con Edlund che soprattutto nel ritornello sfodera un ringhio assolutamente convincente. L’andamento complessivo e gli echi orientaleggianti richiamano alla mente The Scapegoat, da Clouds.
Misantropolis: altro lento, altra gran canzone, poetica ed emozionante. Nella strofa Edlund canta sommesso su liquidi accordi; il ritornello coniuga magistralmente malinconia e potenza. Nel finale Johan dimostra di essere provvisto di una estensione vocale di tutto rispetto.
Amanitis: di nuovo un interludio, che rielabora il tema di Misantropolis con strumenti quali un mandolino (o qualcosa di simile), tamburelli, un violoncello ed un flautino nel finale. Un gradevole esercizio di stile.
Meliae: canzone assai particolare. Tutta in maggiore, aperta, serena e rilassata, è un po’ la Heaven of high di questo album. Il cantato è quasi colloquiale, la chitarra ritmica scorre tranquilla sopra morbidi tocchi di piano, l’impressione che questa canzone regala è di una certa familiarità, come se la si fosse già sentita da qualche parte. Un brano quasi da cantautore. Degno di nota l’arpeggio cangiante di chitarra nel finale, esempio di quei “tesori elusivi” dei quali l’album è cosparso. Una boccata d’aria fresca, prima degli ultimi tre pezzi del disco, i migliori.
Via dolorosa: uno splendido brano che nella durezza delle chitarre, nella intensità delle tastiere, nell’inesorabile incedere della batteria, nella potenza e cupezza dell’insieme, ricorda immediatamente i Samael. E “samaeliano” è anche il cantato di Edlund, ancora una volta quasi un ringhio all’ombra del quale striscia uno scream sempre più udibile in ogni ripetizione del refrain. Questa canzone ha un che di grandioso.
Circles: LA ballad del disco, condotta da un arpeggio arioso e da tastiere sommesse, nobilitata dalla delicatezza di porcellana del ritornello, dove il cantato di Edlund e un’esile voce femminile danzano all’unisono accompagnati da percussioni quasi troppo tenui per essere udite. Bello il solo di chitarra conclusivo, appena abbozzato, più “suggerito” che suonato. Un raggio di luce, l’ultimo profondo respiro prima del tuffo nell’Abisso.
Amanes: introdotta da una chitarra desolata, esplode subito in una lugubre, opprimente, sulfurea marcia funebre. Edlund canta con voce smarrita la propria preghiera verso il Padre Lucifero che lo ha tradito e abbandonato, mentre chitarre plumbee e tastiere si rapprendono attorno alla sua voce in lente volute di nero. L’agonia viene brevemente interrotta da un solo di tastiere di neanche troppo vago sapore pinkfloydiano, ma infine torna l’amara invocazione della creatura supplice verso il suo Creatore. Non c’è redenzione, non c’è salvezza. C’è però un brano che si colloca di diritto ai vertici della produzione dei Tiamat.
I Tiamat ripagano l’attesa dei loro fans con un album splendido, multiforme e sempre emozionante, a tratti addirittura sorprendente. Forse il migliore tra i loro lavori del dopo-ADKOS.
Voto: 8,5